Domenico Fatigati, un’arte-non oggettiva
Che cosa sia l’arte astratta è interrogativo che assilla, ormai dal secolo scorso, innumerevoli studiosi: storici dell’arte, critici, letterati, filosofi, semiologici. È una domanda ansiosa, ancora oggi di difficile risposta, per una forma di linguaggio che convive con l’altra, ossia con un linguaggio referenziale o, più semplicemente figurale. Fin dal suo apparire nel primo decennio del Novecento, s’intende nel suo palesarsi più noto, senza cioè risalire alla preistoria, essa ha registrato molte interpretazioni. Si tratta di letture adattate a modalità di espressioni diverse che hanno, a loro volta, generato categorie e designazioni, tra le quali, le più ricorrenti, astrattismo, astrazione, arte non-oggettiva. Non è questa la sede per addentrarsi in una problematica complessa ancorché lessicologica che ammette molte sfumature. Se però la terminologia arte-non oggettiva trova esemplificazione “in opere – suggerisce Georges Roque – che non hanno più alcun riferimento alla natura o alla realtà esteriore e sono costituite esclusivamente dall’organizzazione interna di linee, colori, volumi e piani”, credo che Domenico Fatigati possa iscriversi, di primo acchito, in questo filone.
Dico in primis, perché l’artista campano che ho conosciuto solo da poco, per il tramite del comune amico Giorgio Agnisola, mi sembra che leghi altresì la sua esperienza di artista astratto, propriamente geometrico, ad un campo aperto di ipotesi interpretative. Che Fatigati abbia scelto, per il suo quotidiano esercizio, la strada della linea e del colore non è dubitabile. Come però egli proceda nella composizione di tali elementi che restituiscono pagine di grande rigore ma anche di libertà visiva, merita qualche osservazione più capillare. Scorrendo le opere che datano più o meno dal 2014 ad oggi, ci si accorge che egli non si muove privilegiando esclusivamente il codice di un’arte fine a se stessa. Già i titoli, alcuni dei quali ricorrenti, anche per soluzioni compositive diverse, Il gioco delle onde, Onde, Equilibrio, L’armonia dei punti, fino alla dizione (che non è negazione, ma forse il contrario) di Senza titolo, appaiono indicativi. Insomma, non vi è bisogno che vi sia un referente esterno, per comunicare ciò che appartiene ad una dimensione interiore e che il mondo suggerisce al di là delle immagini che riconosciamo come figure o oggetti. Fatigati si affida a strumenti che sono propri della pittura, ma non solo. Le sue sono sia superfici bidimensionali che giocano sulla relazione di linee (a volte proprio segni) e colori cadenzati con reciproco equilibrio, sia composizioni in aggetto che cercano una relazione con lo spazio. Nell’uno e nell’altro caso l’artista sperimenta per esse materie diverse, dal legno al plexiglass, al forex, ritagliate e lavorate secondo un ordine visivo, un assetto formale per il quale queste pagine chiedono allo spettatore di andare oltre. L’artista schiude cioè verso una sollecitazione percettiva imbastita sul richiamo di analogie, di profondità, di prospettive, anche lì dove tutto sembrerebbe vivere in un’estetica al limite del decoro nella sua accezione migliore, priva di emotività. È il suo un registro voluto che, non a caso, ha fatto parlare la critica di un ascendente nella lezione dell’arte programmata, peculiarmente nella declinazione optical. Un richiamo che, del resto, traspare in alcune soluzioni, soprattutto in quelle dove l’uso della china accelera verso l’artificio cinetico di forme virtuali. Sono potenzialità espressive dalle quali è certamente attratto, salvo a registrare che rispetto all’interesse di quelle correnti per una cultura tecnologica che sfruttava nei processi ideativi le conquiste meccaniche, luminose o elettromagnetiche, Fatigati, pare privilegiare una cifra di artigianalità che lo vuole costruttore in prima persona delle sue forme. In questa sapienza che è dedizione, paziente ricerca nel fissare la variazione nella ripetibilità, Fatigati mostra la necessità di dare un senso al suo lavoro, senza isolarlo nell’anonimato. Nella struttura ordinata della sua geometria egli lascia posto ad alterazioni, di peso tra le materie, di carattere tra i colori, di direzione tra le linee, cercando ipotesi aperte al significato di queste narrazioni che restano però strettamente collegate al significante del suo segno plastico.
Ada Patrizia Fiorillo
Simbolismo geometrico e poesia nell’arte di Mimmo Fatigati
Equilibrio e misura, ovvero ordine psicologico e ritmo compositivo, paiono a primo avviso i caratteri della produzione artistica di Mimmo Fatigati: artista serio, schivo, attivo operatore culturale impegnato da anni nel suo antico territorio del circondario partenopeo. Equilibrio e misura chiaramente leggibili nel suo linguaggio. Che ha da sempre come punti di riferimento della sua ricerca l’ “optical art” e i suoi derivati: una ricerca che potrebbe apparire poco incline alla narrazione di sé e del proprio mondo spirituale. Non è così, in effetti. Che l’opera si affermi con un simbolismo geometrico, non esclude che quel simbolismo comporti un principio di poesia. D’altra parte la scelta di uno stile ha un senso proprio in relazione al mondo umano e spirituale che sovrintende al linguaggio e in qualche modo lo significa e lo motiva.
Nell’arte di Fatigati quello dello stupore, del miracolo, di una sintesi interpretata nell’ordine di una composizione rigorosa di tasselli visivi mi sembra un primo elemento da sottolineare. L’artista acerrano ha vivo il senso della costruzione a partire da elementi prevalentemente geometrici, che egli assembla sul filo corrivo di una autentica ispirazione: che non riguarda solo la forma o il colore, ma altresì il reciproco rapporto cromatico e spaziale e intrinsecamente la tensione psicologica e spirituale che essi suggeriscono. Non solo, ma l’aspetto costruttivo del suo linguaggio annette una sapienza compositiva in cui gli stessi risalti cromatici e formali sono in relazione fin dal principio con la sequenza visiva, sicché quest’ultima si legge come una sorta di prefigurazione dell’opera, intimamente, pazientemente e talora lungamente vigilata.
Per Fatigati l’arte è modulazione poetica oltre che sensitiva e costruttiva. Ciò giustifica i sottili passaggi tonali, i precisi eppure calibrati rilievi, i motivi cangianti del suo registro, che ha mille sfumature, percepibili a seconda dell’angolo di visuale e della fonte di luce. Siamo oltre la pittura naturalmente e oltre un assetto di superficie, eppure l’opera resta legata a un principio pittorico. C’è infatti come un insieme di riverberi nelle opere che nello sguardo amalgamano segni e colori, rilievi e assetti formali, superando lo stesso iniziale fascino della texture. Un riverbero che mentre è dentro la percezione, al tempo stesso la trascende, diventa come aura che sublima la stessa visione. Frutto raffinato del rigore costruttivo dell’artista, vissuto come sguardo interiore, come aspirazione ad una superiore armonia.
Giorgio Agnisola
Altri luoghi
Da tempo, con ostinata tenacia, Mimmo Fatigati prosegue la sua ricerca sulle immagini geometriche ed aniconiche; rappresentazioni che non conservano più alcun legame con le figure e neppure con i dati della natura, ma si indirizzano verso l’interno della visione, verso le griglie percettive che la orientano. L’area è quella ascrivibile al filone dell’optical art, che negli anni sessanta e settanta visse la sua stagione più significativa, con le ricerche di Vasarely, Buren, Alviani, per citare solo alcuni tra gli altri. Scopo delle ricerche di questi artisti, mediante l’uso del colore, della linea e della geometria, nonchè del segno grafico e di altri innesti eterocliti, era di provocare alterazioni nel quadro della percezione visiva, inducendo l’osservatore a riconsiderare lo spazio della rappresentazione, scardinando i canoni tradizionali, destabilizzandoli con il colore e il taglio di geometrie dinamiche. Fatigati per suo conto, in un certo senso, ha rimosso i legami che lo vincolavano con la sua formazione precedente, per percorrere in solitario ascolto le modulazioni provenienti dal suo mondo immaginativo; un transito non certo agevole e ricco di insidie, perchè la visione delle sue opere apre uno spazio raffreddato, a tratti asettico e sotto vuoto di luce algida. Ma chiama in causa nello stesso tempo altri luoghi, altre significanze, in cui le architetture delle città e le modalità con cui sono concepite stridono con lo spazio dell’uomo (vicinanza, prossemia) e quindi l’habitat, il corpo, la casa come estensione del corpo, sollecitando numerose interrelazioni di ordine antropologico e sociologico. C’è tutto questo occultato nei luoghi della sua ricerca (che Fatigati tenta di esperire), nelle stratificazioni delle materie adoperate, nella costruzioni di labirinti identici delle sue cellette, nella estroflessione delle plastiche, nei colori che innescano dialoghi con lo spazio riempendo il vuoto che l’assedia, l’artista non opera soltanto sulla superficie ricollegandosi ad esperienze visive ormai storicizzate, ma sa che ipotizzando luoghi più umani ed empatici, si riduce il contrasto, l’attrito, lo iato stridente uomo-natura compromesso dallo sviluppo forsennato e senza regole. “è l’ora” dice il poeta francese Renè Char “che le finestre s’involano dalle case per accendersi in capo al mondo dove il nostro mondo spunterà”.
Gaetano Romano
L’arte come effusione del ritmo patico interiore
Mimmo Fatigati è affascinato dalle geometrie e dal colore. Le sue composizioni artistiche rispondono a un bisogno totalmente diverso da quello che sollecita qualsiasi pittore in dialogo con il mondo. Pur esprimibile in un linguaggio concreto, fatto di forme o astratto, costituito da pura materia cromatica priva di qualsiasi forma oggettiva o immaginaria, la pittura in dialogo con il mondo naturale o umano risponde sempre a una precisa domanda. Il pittore si chiede sempre come sia possibile conferire la bellezza a una scena reale, a un pezzo di mondo. Che quello spicchio di reale sia goduto e rappresentato per quello che è realisticamente o sia avvertito e riespresso come risonanza interiore di tipo emozionale, priva di qualsiasi riscontro formale oggettivo, non cancella né nega il dialogo dell’artista con il mondo. Il prodotto finale è sempre una lettura, una reinterpretazione di una parte di mondo o una risposta alle sollecitazioni provenienti da esso.
Nel fare artistico di Mimmo Fatigati questa interlocuzione sembra non trovare posto. L’impegno nel produrre arte si presenta completamente sganciato dalla natura e dal modo di sentirla e reinterpretarla. L’autonomia dell’artista dal mondo sembra assoluta, priva di qualsiasi residua relazione e/o allusione a esso. Sfera della natura e sfera dell’arte nei manufatti di Mimmo Fatigati si presentano autonome e indipendenti. Ognuna di esse vive nel proprio ambito, chiusa alla comunicazione e all’esercizio di un ruolo nell’ambito dell’altra.
Oltre che dalla natura, l’operazione creativa di Fatigati sembra sganciata anche da ogni retaggio e da ogni prospettiva di tipo storico-culturale. Non mira ad alcun recupero di elementi specifici della tradizione valoriale né è finalizzata a polemizzare con essa per l’affermazione di una finalità nuova, intenzionalmente assunta e perseguita. Arte e storia nell’operosità produttiva di Fatigati sembrano ambiti non in stretto dialogo. I fatti della vita civile, le tensioni interne al mondo della storia non sembrano avere alcun riverbero nell’azione creativa dell’artista.
A guidare Fatigati nel proprio lavoro sembra essere soltanto la “voce” della sua interiorità, le osservazioni e le sperimentazioni nel campo della sensibilità personale. A indirizzarne il percorso e a guidarne la mano con sapienza compositiva è soltanto un sapere interiore, intimo, impermeabile, o quasi, a ogni sollecitazione esterna. La “radice” vera e profonda di questa forma d’arte pare debba essere individuata esclusivamente nella “conoscenza di sé”, nella profonda tensione spirituale che spinge l’artista a operare. È nella interiorità originaria, non filtrata né vagliata attraverso la riflessione intellettuale, che va cercata e trovata la sorgente del fare artistico di Fatigati. A spingerlo all’opera è una sorta di “necessità” patica, una delicata sensibilità prettamente soggettiva. Ed è qui, in questa insondabile vena interiore, che va individuata la “fonte” primaria della sua originalità compositiva.
Mimmo Fatigati “costruisce” le sue opere con la pazienza frenata e con la meticolosità attenta e caparbia dell’artigiano ispirato, del costruttore di manufatti tutto intento all’ascolto della “voce” interiore, che gli detta le mosse. Il miracolo vero è che quel che ne risulta non è geometria né composizione artigiana, utile e funzionale a qualche scopo preciso. È pura e semplice armonia compositiva, promettente annuncio di bellezza. È arte ricca di fascino. È visione fascinatrice. È ritmo misura equilibrio. È scala musicale, con i suoi “crescendo”, i piani, i pianissimi, le fughe, gli acuti, i bassi. È l’eco del ritmo emotivo dell’interiorità introversa dell’autore. È il frutto effusivo del suo ritmo spirituale. È l’esplorazione di un mondo non prodotto dalla natura né dall’impegno storico-culturale della società.
A indirizzare Fatigati nella scelta dei materiali, cilindretti o stecchini di legno, rondelle di metallo, striscioline di laminato plastico e altro, è una sapienza tattilo-visiva al servizio della “voce” interiore, del piano compositivo che, pur articolandosi e perfezionandosi nel corso del procedere del lavoro, risponde a un costrutto immaginario, già bello e compiuto nella sensibilità profonda dell’esecutore.
L’accento, allora, va posto sulla purezza, sul risultato dell’opera totalmente depurato da ogni forma di culturalismo intellettualizzato, di costruttivismo di tipo ingegneristico ragionato e programmato.
Il ritmo delle sequenze armoniche dei materiali colorati segue il dettato interiore con la stessa spontaneità che caratterizza la creatività di un musicista ispirato. Il progetto operativo si viene componendo quale espressione immediata di risonanze emotive, di esplorazioni intrapsichiche, nient’affatto condizionate dall’esteriorità. Questo nesso diretto interiore esteriore, al netto di ogni sorta di mediazione mentalistica, è vivo e vero, è attivo e imperativo anche quando e nel caso l’artista Fatigati volesse o dovesse schizzare sulla carta prima dell’esecuzione il progetto da seguire per la realizzazione dell’opera. Quest’aspetto della costruzione dell’opera riguarderebbe eventualmente il piano esecutivo, senza oscurare quello più profondo e essenziale della fonte primigenia dell’ispirazione.
Aniello Montano
Strutture analitiche astratto-geometriche
Il maestro Fatigati nelle sue opere si serve del processo di astrazione per trasmetterci il suo messaggio misterioso ed ermetico. Dalla fine degli anni sessanta attua un processo di scarnificazione linguistica lavorando sull’astrazione geometrica, con rigore scientifico, organizzando lo spazio e ordinando le cose rappresentate. Egli porta avanti le ricerche radicali sulla percezione visiva e della psicologia della forma, dell’arte cinetica e dell’optical art di Vasarely, Munari, Mari, Mavinger, Boriani, Colombo, Varisco, per citarne solo alcuni. Una vera e propria distinzione tra arte cinetica e Optical Art non è semplice. Tuttavia, si possono definire “cinetiche” quelle opere bidimensionali o tridimensionali che combinano luce e movimento, mentre l’Optical Art si base soprattutto su opere bidimensionali che procurano reazioni psicofisiologiche, creando spesso un effetto di disorientamento nello spettatore o una visione non chiara e non definita attraverso elementi geometrici. Fatigati per creare le sue strutture-composizioni non si serve più dello scalpello o del pennello, usa invece materiali diversi, che fanno parte della nostra quotidianità, quali: rondelle di ferro, stuzzicadenti di legno, fascette di plastica, reti, tappi, stoffe e tante altre cose. Quello che emerge nelle sue opere è qualcosa che coinvolge lo spettatore, costruisce le opere come un tecnico della visione; i suoi volumi plastici, una rondella di ferro o uno stuzzichino di legno, sono sempre colorati con diverse sfumature o chiaroscuri per poi assumere grandezze differenti nell’occhio di chi guarda. Utilizza diversi colori: rossi, gialli, verdi, azzurri, bianchi che stimolano la retina e creano effetti ottici nello spettatore, secondo della grandezza e della frequenza delle linee o dei segni. Non ci troviamo di fronte al tradizionale dipinto o scultura ma davanti a un oggetto “unico” che porta a una riflessione sui meccanismi della visione e sulla percezione. Questo tipo di lavoro non si presta allo sviluppo del multiplo, come accadeva invece in alcune opere dei maestri dell’optical art, di cui si conservano molteplici edizioni di una singola opera. Le forme astratto-geometriche sono frutto di un preciso calcolo matematico, non solo per costruire l’opera ma anche per ipotizzare le possibili varianti con gli stessi elementi. Le strutture sono realizzate con sapiente maestria tecnica, un lavoro certosino, scientifico, minuzioso, rigoroso, elaborato nel tempo e costruito su qualcosa di solido e durevole.
Massimo Coppola
Domenico Fatigati
La visione dell’essere, come segno indelebile della conoscenza, resta come base della concezione della comunicazione che solo attraverso l’arte si può costruire ma essenzialmente definire con strumenti o linguaggi che l’artista sceglie nell’ambito della sua autonomia culturale e segnica. La costruzione di un mondo, dove la correlazione fra immagine e realtà, si sviluppa come metafora della realtà o se si vuole dell’inganno che lo sguardo assimila e trasforma come immagine reale. Un lungo confronto che prescinde i significati di una costruzione estetica ma che ci porta a considerare il concetto stesso di nuova dimensione dell’apprendere; un conflitto in nuce, cioè dentro lo stesso significato quasi una implusione concettuale dove l’apparire rientra nel concetto dell’essere. Su questo territorio si va a delineare la ricerca di Mimmo Fatigati, un’attenta e minuziosa costruzione di simboli che delineano lo spazio ma che si proiettano fuori la dimensione dell’opera quasi come in un continuum immaginativo dove i segni simbolici si intrecciano con quelli razionale e sincretici dell’esperienza fisica-visuale. Un percorso che sicuramente trova il punto di ancoraggio in tutta quella esperienza sulla visualità e sul percepire che ha visto nascere, ma anche tramontare, esperienze artistiche e gruppi che hanno segnato la cultura dell’arte e della sperimentazione. Ma il lavoro costante, quasi certosino, di Fatigati nel costruire queste sue opere ci porta ad una riflessione intorno al concetto stesso della realtà del percepire; questa infatti diventa una forma continua di sperimentazione fra la costruzione dell’osservare e la dimensione della fruibilità dell’opera stessa; un dialogo aperto dove lo spettatore resta imbrigliato tra l’osservazione e lo sviluppo della contestualità dell’opera. Una costruzione modulare dove ogni piccolo elemento diventa, nella sua essenza, parte del tutto pur restando soggetto di un modulo più ampio, e come la parola che vive in un conteso di un discorso, il particolare nell’universale. Indubbiamente Mimmo Fatigati si confronta con il procedere dentro e fuori l’opera pur restando in attesa di un nuovo elemento che continui, o frantumi, il suo totem. Sicuramente in Fatigati il concetto di opera costruisce una dimensione diversa di quella in cui le regole del costruire restano perfette e precise, infatti se apparentemente questo può sembrare essere la vera natura di questo lavoro noi troviamo nel fruire dell’immagine e nell’osservazione del soggetto uno slittamento verso altri confini della conoscenza dove le strutture della visione, per scoprire il codice rappresentato, diventano impercettibili sensazioni e nuove suggestione dell’osservare. Una continua sperimentazione ma sempre in una unicità nel linguaggio, un percorso sempre razionale nel costruire e nell’osservare, ma sicuramente anche aperto alla dimensione nel trovare e nell’individuare, anche in materiali eterogenei, la stessa significazione enunciativa e la stessa morfologia con cui Fatigati ha costruito questo suo percorso artistico riducendo alla scoperta della visualità un nuovo mondo dove la dimensione della realtà esiste solo dentro e non fuori la dimensione concettuale dell’opera; un fare che ci porta a visionare e decodificare nuove dimensioni che diventano elementi stessi di quella spettacolarità che solo la nostra mente può costruire e i nostri occhi possono percepire.
Nicola Scontrino